Un terzo occhio per l’arte: Oculus Rift (una nota di Aurora Di Girolamo)

Negli ultimi anni la diffusione delle tecnologie ha causato profondi cambiamenti culturali influenzando anche il modo di fare arte, le istituzioni museali, le mostre temporanee e l’archeologia, e offrendo nuove modalità di gestione del patrimonio e la possibilità di una fruizione più approfondita e personalizzabile.
Nel mare magnum della tecnologia utilizzabile, merita particolare attenzione l’Oculus Rift, uno schermo per la realtà virtuale collegato a un computer di alta qualità, un tecnologico “terzo occhio” che si applica sul viso e copre totalmente il campo visivo dell’utente offrendo la possibilità di immergersi in un mondo virtuale.
La società produttrice di Oculus Rift è Oculus Vr, fondata nel 2012 da Palmer Luckey e ora proprietà di Facebook.

L’Oculus si può usare a lungo se non si soffre di cybersickness: in natura il movimento della testa è gestito dal sistema vestibolare mentre le proiezioni del mondo si spostano immediatamente sulla retina, nei sistemi virtuali invece – a causa di limitazioni hardware e software – c’è un inevitabile ritardo tra i movimenti dell’utente e il rendering (la restituzione grafica della scena virtuale)se questo ritardo è eccessivo le informazioni sensoriali potrebbero contrastare causando sintomi di malessere. Per ovviare al problema Oculus Rift presenta uno schermo OLED ad alta risoluzione, refresh rate a 90 herz, un angolo di visione a 110°, un comparto audio per il suono in 3D e sensori di movimento quali accellerometro, tracking posizionale 360° e giroscopio. Per un movimento naturale Oculus è collegabile a un controller, Oculus Touch, mentre per tracciare la posizione dell’utente è dotato di un sensore infrarossi chiamato Costellation.
Nate per il gaming, queste tecnologie vengono presto applicate ai beni culturali perché
sono strumenti di conoscenza e di coinvolgimento molto efficaci, soprattutto favoriscono un apprendimento di tipo senso-motorio più spontaneo e naturale rispetto alla scrittura o alla spiegazione orale.
Un caso tutto romano è il cantiere di restauro della Domus Aurea di Nerone: dopo la damnatio memoriae la Domus venne spogliata dell’apparato decorativo e utilizzata da Traiano per costruire al di sopra le sue terme; frazionò gli ambienti e interrò le stanze provocando una effettiva difficoltà nel capirne struttura e orientamento. In questi contesti la frammentarietà del monumento costituisce una barriera al suo godimento, ed è qui che la tecnologia aiuta l’immaginazione a comprendere ciò che a volte non è palese nemmeno agli addetti ai lavori.

Per la Domus è stato creato un vero e proprio viaggio nel tempo in VR fruibile nella sala della volta dorata.
Un lavoro di questo tipo segue specifici passaggi:
– definire le fonti, per una ricostruzione in 3D scientificamente rigorosa ma anche attrattiva per l’utente,
– applicare strumenti di modellazione 3D e software per la texture: una complessità computazionale tale che richiede alte professionalità,
costruire un team multidisciplinare (ingegneri dell’informazione, progettisti multimediali, storici e musicisti) con un linguaggio comune: i singoli esperti devono comprendere anche campi del sapere lontani dalla propria formazione.

La VR si presta bene in archeologia ma anche nelle nuove mostre experience, viaggi multisensoriali dove le opere sembrano prendere vita e riescono ad avere un enorme riscontro di pubblico (la Klimt experience 2017 a Milano ha contato 50 mila visitatori in 3 mesi).
Nonostante tutto la critica è spesso negativa: il rischio è di cadere nell’errore di usare la VR in modo superficiale, creando mostre che non hanno alcun valore al di là delle immagini attraenti.
Critica a parte, bisogna considerare che il focus si sta spostando dall’oggetto fisico all’esperienza, il puro linguaggio artistico è esaltato dalle tecnologie e reinterpretato in realtà virtuale.
La VR ha influenzato non solo il contesto museale-espositivo, ma anche quello puramente artistico-creativo, muovendosi in due direzioni: da un lato nuove verso forme d’arte in formato specifico, dall’altro verso nuovi linguaggi ed esperienze
. Rendere reale il cyberspazio è un lavoro tanto artistico quanto tecnico, che comporta un vero e proprio “amplificatore di intuizione”, un linguaggio e un medium nuovi: l’opera diventa sempre più immateriale facendosi evento, il dato fisico è del tutto secondario rispetto alla grandezza del soggetto posto in essere, il percorso diventa una informazione in estensione.
Per il progetto Acute Art, Marina Abramovic, Jeff Koons e Olafur Eliasson realizzano tre lavori in VR per la difesa dell’ambiente (2017).

Il lavoro presentato da Abramovic è Rising: indossando il visore, lo spettatore viene accolto dal suo avatar; enormi ghiacciai si stanno sciogliendo davanti a lui e l’acqua sale rapidamente. L’obiettivo è diretto, per salvare l’artista dall’annegamento bisogna proteggere l’ambiente, ignorare il problema significherebbe condannarla a morte.

Koons ha realizzato Phryne, un’opera che esplora i temi dell’auto-affermazione. Una ballerina metallizzata, creata nello spirito delle arti “pastorali”, accoglie lo spettatore in un giardino idealizzato danzando tra alberi verdeggianti e farfalle. Trasmettendo grazia e armonia universale, Phryne intende alleviare l’ansia del partecipante, permettendogli di interagire con l’ambiente tutt’intorno.

Il lavoro di Eliasson si chiama Rainbow, un arcobaleno multicolore programmato in modo che ogni goccia di pioggia colpisca la luce in una certa misura. Visibile solo da certe angolazioni, l’arcobaleno riconosce la presenza di altri, il tema è quindi la socialità, la collaborazione fra noi e la convinzione che da singoli possiamo fare la differenza.

La VR trasforma il ruolo dell’osservatore,  dell’artista e la natura dell’opera stessa creando nuovi linguaggi e nuovi fenomeni, che coniugano progettualità, mestiere e perizia tecnica con la chiamata in causa dell’utente, senza il cui intervento l’esperienza non si compie.

Aurora Di Girolamo
(http://www.facebook.com/aurora.digirolamo)