*Il testo che segue è stato scritto a quattro mani con Bettina Mirabile, esperta di energia e sostenibilità con una formazione di storica dell’arte. Riassume le osservazioni nate durante la visita alla mostra a fine agosto 2025, scaturite dai rispettivi punti di partenza, un approccio storico-artistico e tecnologico-industriale a confronto.
Marshall McLuhan ci ha raccontato come uno strumento non sia mai solo tale, bensì in grado di condizionare i comportamenti e riconfigurare il nostro ‘brainframe’. La tensione tra umano e macchina che scaturisce dalla riconfigurazione che ci impone l’arrivo delle intelligenze artificiali si manifesta nelle opere di una selezione di artisti in dialogo nell’ultimo decennio con le IA, presentate alla mostra al Jeu de Paume di Parigi Le monde selon l’IA (The world through AI) , a cura di Antonio Somaini con Ada Ackerman, Alexandre Gefen, Pia Viewing.

Il titolo della mostra ci fa da filo conduttore lungo tutta la visita nei due piani dell’edificio, dove sono esposte opere di pittura, disegni, sculture, fotografie, data visualization, video, scritture, audio, installazioni interattive.
I curatori hanno navigato il mondo delle intelligenze artificiali individuando quattro nuclei tematici, che strutturano anche i capitoli del catalogo:
- Cartografia dell’IA: materie, spazio e tempo
- Rilevare, riconoscere, classificare: l’IA analitica
- Spazi latenti e immagini possibili: le IA generative
- Scritture generative.
Ogni sezione si sviluppa a sua volta in due registri, quello della produzione contemporanea, con opere realizzate appositamente per l’occasione, e la parte storica, dei “cabinet des curiosités” che raccontano gli antenati di questi meccanismi/automatismi: dal telaio Jacquard ai poemi dell’Oulipo, in un percorso che ritrova il cilindro di Leibniz accanto ai capricci di Piranesi.
La mostra si apre con la questione che sottende l’intero progetto espositivo: come vengono trattate, elaborate, generate, esperite le immagini attraverso i modelli di IA? Si tratta di un nuovo capitolo che aggiunge gli LLM (Large Language Model) e le TTI (Text-to-image) agli studi sulle teorie dell’immagine, campo in cui Antonio Somaini è eminente studioso.
Nella prima sezione, a titolo di esempio, citiamo la cartografia di Calculating Empires, l’opera monumentale di Kate Crawford e Vladan Joler del 2023, già esposta in Italia alla Fondazione Prada di Milano.

Si tratta di una mappatura delle forme di potere sviluppata lungo la verticale evolutiva della linea del tempo, dal 1500 a oggi, espressa attraverso molteplici aspetti, divisi in due macroaree: Communication and computation e Control and classification. Vi troviamo la storia degli algoritmi, dei dataset, dell’istruzione, dell’energia ecc., che a loro volta aprono a ramificazioni e connessioni orizzontali. Un intreccio reticolare di dati eterogenei che Crawford e Joler sono riusciti a sintetizzare in un’interfaccia grafica fruibile dal pubblico. Un’opera stratificata e potenzialmente infinita che ha trovato nell’omonimo sito un punto di accesso per una esplorazione da remoto a più riprese.
La mappa occupa una sala intera e si legge, abbiamo immaginato, come se prendessimo il filo di un arazzo e ne risalissimo il percorso. Seguendo le varie colonne tematiche, ci siamo soffermate sulla sezione Data organization, che inizia cronologicamente dal libro a stampa a caratteri mobili di Gutenberg, invenzione seguita già un secolo dopo dalle prime lagnanze sull’overload di informazioni lamentato dal naturalista svizzero Conrad Gessner. Dal libro come organizzatore di informazioni, si sale la linea del tempo fino alla registrazione dei dati biometrici, gli archivi fotografici, gli scanner, le digital libraries e i dataset di addestramento dell’IA. Oppure ancora, nella sezione Energy and resources, si parte dall’energia idrica ed eolica per arrivare alla stringente attualità della decarbonizzazione e delle implicazioni dei metalli verdi.

La seconda sezione, Rilevare, riconoscere, classificare: l’IA analitica, dedica una sala a Hito Steyerl con Mechanical Kurds (2025). Il titolo rievoca il mechanical turk, richiamato nella sezione storica, una macchina automatica del XVIII secolo in grado di giocare a scacchi con gli umani, che, si scoprì poi, nascondeva all’interno un giocatore in carne e ossa. Mechanical turk è il termine con cui si indica oggi la forza lavoro umana a basso costo che svolge azioni ripetitive e meccaniche, funzionali all’addestramento degli algoritmi, una tipologia di lavoro rilanciata dall’apertura della piattaforma di microworking Amazon Mechanical Turk. Nel video, Steyerl segue con la telecamera dei curdi nei campi profughi, impiegati da queste piattaforme con il compito di taggare ciò che si vede nei filmati dei droni militari, con il fine di istruire la visione meccanica dei programmi di IA. Guardiamo scorrere dall’alto auto, persone, case, inquadrate ed etichettate con le stesse forme cubiche colorate, i bounding box, in cui ci accorgiamo di essere seduti, strutture che ci portano alla consapevolezza di essere noi stessi un target.
Dal dinamismo delle immagini che si susseguono e si ricompongono nel video emerge un interrogativo: la necessità di classificare nel modo più esaustivo e neutro possibile finirà per intaccare la creatività e la capacità interpretativa degli artisti?

Il tema del lavoro umano a servizio delle intelligenze artificiali è trattato anche dal collettivo Meta Office in Behind the screens of Amazon Mechanical Turks (2021-25), in cui sono visualizzate su un totem le fotografie di migliaia di scrivanie di invisibili clickworkers. Il senso di alienazione si mescola al paradosso dello sfruttamento del lavoro umano per implementare un mondo che sembra sempre più progettato per le macchine.

Particolare rilievo viene dato all’indagine di come operano i sistemi di acquisizione automatica delle immagini e dei riconoscimenti facciali. Nelle opere di Harun Farocki Eye/Machine I (2000) e di Trevor Paglen Faces of ImageNet (2022) si sollevano le questioni di privacy e bias (pregiudizi); siamo sul crinale instabile tra l’implementazione dei livelli di sicurezza e la strumentalizzazione impropria, se non in alcuni casi illegale (o addirittura criminale) dei dati biometrici catturati a nostra insaputa. Il mondo secondo l’intelligenza artificiale ci appare qui onnivoro, ci costringe, nelle parole di Trevor Paglen a “disimparare a vedere come degli umani” per comprendere il mondo invisibile della cultura visiva meccanica.
Nella sezione Spazi latenti e immagini possibili: l’IA generativa, a cui Somaini dedica un’ampia riflessione in apertura di catalogo, di grande attualità è il tema degli archivi. Liberati da una percezione di entità polverose e tornati alla ribalta come dataset di addestramento, comportano per loro natura un’organizzazione parziale e pregiudiziale del sapere. Nel saggio di Ada Ackerman in catalogo, la studiosa mette l’accento sull’analisi degli archivi dal punto di vista degli spazi vuoti, dei dati perduti, come uno spazio latente in cui emergono le potenzialità delle intelligenze artificiali a riempire questi vuoti, ricostruendo – ma anche inventando – forme mancanti. Ackerman offre una prospettiva inusuale che ci porta a ragionare se l’Intelligenza Artificiale sia davvero capace di integrare e completare quanto mappato, o se può solo rappresentare ciò che ha imparato a conoscere.
Esemplare in questo è il lavoro di Egor Kraft sulla generazione di immagini, CAS Content Aware Studies (2018-), avente per oggetto il completamento dei frammenti di volti nelle sculture greco-romane, un tentativo di reverse archaeology che mette in luce le allucinazioni dell’algoritmo che non riesce a completare la forma in maniera verosimile. Come scrive l’artista: “dobbiamo riconoscere i coni d’ombra dei dati: la storia saturata di narrazioni parziali, di misinterpretazioni, di rapporti redatti dai vincitori dei conflitti.” L’installazione dell’artista si propone come un’esperienza del pensiero “composto di opere che non sarebbero mai esistite e di conseguenza algoritmicamente autentiche” (Ackerman).

Una sala è dedicata alla fotografia in relazione agli archivi e alla memoria collettiva. Si parte dalla sezione storica sulla catalogazione pseudoscientifica dei tratti fisiognomici – con le fotografie di Lombroso, di Galton e il sistema di ritratto composito messo a punto dalla polizia giudiziaria di Lione – per arrivare alle “possibilità che si offrono e forse si offriranno alla fotografia all’epoca dell’intelligenza artificiale nella trasformazione degli archivi fotografici in spazi latenti suscettibili di diventare la fonte di una produzione di immagini interamente sintetica”. Nel campo della generazione di immagini si evidenzia come allo stato attuale dell’arte, non ci sia posto per la fotografia, ma soltanto per “uno stile fotografico” (Noam M. Elcott e Tim Trombley in catalogo), diremmo oggi per la generazione di immagini fotografiche ‘alla maniera di’.

Nell’ultima sezione, Scritture generative, ci si concentra sulla generazione di testi. Lo sguardo è sempre simultaneamente rivolto anche al passato, con le tecniche di scrittura casuale di poemi dadaisti, passando per quello che viene considerato il primo chatbot del 1966, Eliza, aggiornato a una versione moderna che consente di interagire con la macchina. Le sperimentazioni artistiche che indagano questo aspetto percorrono varie direzioni, dalla stimolazione della creatività algoritmica con la generazione di haiku e di scritture plausibili, fino all’hackeraggio dei chatbot, alla ricerca delle zone grigie del funzionamento dei modelli di IA.
In un dialogo di Julien Prévieux con ChatGPT l’artista chiede quante ‘o’ ci siano nella parola ‘erreur’ (errore in francese). Dopo lungo e articolato ragionamento, la risposta finale fornita è 1. E che succede se si scrive nella finestra del prompt la parola ‘poema’ o ‘libro’ all’infinito? In Poem, Poem, Poem, Poem, Poem (2024-25) l’artista racconta di come un gruppo di ricercatori abbia ottenuto in questo modo il disvelamento dei testi serviti all’addestramento del chatbot, dai libri alle e-mail. Una falla ora corretta.
In conclusione della visita, realizziamo di aver oscillato tra diversi approcci all’IA: a volte percepita come specchio attraverso cui guardare il nostro modo di pensare, e di creare; a volte come un mero, abilissimo, calcolatore statistico. Un calcolatore intorno a cui stiamo ricostruendo i nostri ecosistemi, tornando alle teorie di McLuhan con cui abbiamo aperto questo post. Le implicazioni sono profonde e strutturali. Dal punto di vista artistico si discute sull’automazione del processo creativo, sullo spostamento dell’autorialità, sulle questioni economico-legali legate al diritto d’autore, o più in generale alla proprietà intellettuale, uno degli aspetti intrinseci alla sua identità digitale. Troppo spesso, quando si parla di IA, si confonde l’accesso immediato all’informazione con la conoscenza operativa, senza considerare il potenziale trasformativo, un potenziale che può essere sbloccato solo preservando il diritto alla creatività e all’interpretazione dell’autore.
L’IA generativa chiama in causa, inoltre, una serie di implicazioni etiche dai contorni ancora indefiniti, come l’applicazione dell’IA in contesti industriali, o legati alla sicurezza, non sempre trasparenti. Tra le questioni più critiche legate allo sviluppo delle intelligenze artificiali figurano soprattutto gli impatti ambientali dovuti alle quantità massive di energia e di acqua richieste, in un contesto di approvvigionamento sempre più critico. L’IA si sta infatti configurando come un nuovo teatro di potere, in cui la sovranità tecnologica va di pari passo con quella energetica. La mostra ha il merito di aver offerto una visione critica d’insieme sull’IA, che attraverso l’arte ci invita a guardare il mondo con gli occhi delle macchine ma anche a interrogarci su ciò che resta invisibile: dietro ogni immagine generata, ogni poesia algoritmica, ogni connessione digitale si nasconde una realtà fatta di costi ambientali, lavoro invisibile e disuguaglianze sociali. L’IA è il progresso, il nostro oggi e il nostro domani, ma sono le opere d’arte a preservare l’aspetto emozionale e ad indicare ancora una volta la strada per evolvere.
“le IA disegnano dei mondi dove l’umano non è più il solo comandante a bordo. Così le opere generate dalle IA ci invitano a una riflessione sui processi di produzione di saperi e di valori messi in opera dalle tecnologie, nel nostro lavoro fino alla nostra esistenza quotidiana” (Alexandre Grefen)
Se da un lato, infine, abbiamo percepito nelle opere quella tensione ricordata in apertura tra umano e macchina – l’antagonismo dovuto alla velocità di sviluppo delle intelligenze artificiali e all’insondabilità dei meccanismi che la guidano – dall’altra si profilano vie percorribili in un approccio di collaborazione e dialogo, di cui avevamo parlato qui. In quest’ottica ci sembra rilevante ricordare, come fa il progetto espositivo, che l’intelligenza artificiale è essa stessa un’opera collettiva, basata su modelli collaborativi che necessitano, in virtù della loro pluralità di ‘autori’, di abbracciare maggiore trasparenza e democratizzazione.
La mostra è aperta fino al 21 settembre 2025. Catalogo JBE Books.
Artisti in mostra: Nora Al-Badri — Nouf Aljowaysir — Jean-Pierre Balpe — Patsy Baudoin et Nick Montfort — Samuel Bianchini — Erik Bullot — Victor Burgin — Julian Charrière — Grégory Chatonsky — Kate Crawford et Vladan Joler — Linda Dounia Rebeiz — Justine Emard — Estampa — Harun Farocki — Joan Fontcuberta — Dora Garcia — Jeff Guess — Adam Harvey — Holly Herndon et Mat Dryhurst — Hervé Huitric et Monique Nahas — David Jhave Johnston — Andrea Khôra — Egor Kraft — Agnieszka Kurant — George Legrady — Christian Marclay — John Menick — Meta Office — Trevor Paglen — Jacques Perconte — Julien Prévieux — Inès Sieulle — Hito Steyerl — Sasha Stiles — Theopisti Stylianou-Lambert et Alexia Achilleos — aurece vettier — Clemens von Wedemeyer — Gwenola Wagon
Foto di Maria Stella Bottai e Bettina Mirabile
