(In)attualità del diorama: una nota di Julie Pezzali

Il nome dell’inventore francese Daguerre è noto ai più per essere il padre della fotografia. Nel 1839, mise a punto la prima tecnica in grado di fissare stabilmente le immagini, che in suo onore prese il nome di dagherrotipia. Meno conosciuta, ma sempre riconducibile all’attività di Daguerre, è l’origine del diorama, dal greco guardare attraverso. Nelle fiere itineranti di primo Ottocento fu uno spettacolo popolarissimo con proiezioni luminose su teloni dipinti, che davano l’illusione di movimento. Come la lanterna magica, le cartoline stereoscopiche e il teatrino delle ombre, il diorama si colloca all’origine di quegli esperimenti che avrebbero portato alla nascita del cinema nel 1896. A tal proposito, a Padova si visita il curiosissimo Museo del Precinema.

Da allora, il diorama si è trasformato nell’uso e nei significati fino ad approdare nelle sale dei musei. Dispositivo al contempo meraviglioso e ibrido, ha rappresentato e rappresenta uno dei pilastri museografici per la ricostruzione tassidermica a scopo didattico nei musei di scienze naturali.
In anni recenti, gli artisti si sono confrontati con la tradizione del diorama nel museo, attratti forse dalle molteplici potenzialità creative del mezzo.
Il fotografo Richard Barnes, nella serie Animal Logic (2009), mostra al pubblico cosa accade nei musei prima dell’orario di apertura, appagando il desiderio voyeuristico di conoscere il dietro le quinte. L’atmosfera sospesa dei suoi diorami riporta alla mente le scene del film Una notte al museo con gli animali esotici ancora protetti nel loro involucro di plastica e con il pittore sul ponteggio intento a rifinire gli ultimi dettagli della scenografia sullo sfondo.

In bilico tra arte e scienza, Barnes propone una riflessione ironica sul making of dell’allestimento museale e sulle operazioni di manutenzione e pulizia dei diorami. In molti casi, i diorami, realizzati più di cinquanta anni fa, contengono materiali tossici — fra cui l’arsenico —  e sono oggi oggetto di smantellamento o restauro.
La messicana Dulce Pinzón ha scattato la serie fotografica Historias del Paraíso (2011) nel Museo di Storia Naturale del Pueblo prima della sua definitiva chiusura.

All’interno degli antichi diorami dai paesaggi esotici, l’artista compone habitat surreali con polverosi animali impagliati, all’interno dei quali irrompono pin-up, bambini con palloncini e coppie di innamorati. Un senso di profonda nostalgia emana da queste scene, i personaggi che li abitano sembrano essere gli ultimi distratti spettatori nelle sale di un museo oramai abbandonato.

Il diorama non è sfuggito al vasto processo di ripensamento del museo, sia come istituzione sia come spazio narrativo, capace di accogliere la complessità di voci in un’ottica più inclusiva e plurale. A testimonianza dell’urgenza sentita dalle collettività di una riscrittura della storia, si ricorda il caso controverso dei diorami dell’American Museum of Natural History di New York realizzati negli anni Trenta. In particolare, uno di essi rappresenta l’incontro tra la popolazione nativa Lenape, ancora oggi esistente, e gli Olandesi, arrivati sulle loro terre alla metà del Seicento.

Nella teca, l’incontro tra le due comunità è presentato come pacifico, con gli Olandesi, sbarcati da sontuosissime navi, intenti a presentarsi cordialmente agli uomini Lenape e le donne sullo sfondo. Il diorama presenta una visione estremamente stereotipata e gerarchica, ignorando le conflittualità e le violenze della colonizzazione.
Da anni impegnato in strategie volte a ridurre gli stereotipi, legati a una visione parziale della storia, l’American Museum of Natural History ha così deciso di ripensare il diorama. I curatori hanno scelto di mantenerlo nella sua integrità e di problematizzarlo alla luce degli studi postcoloniali. Il nuovo allestimento, intitolato Reconsidering the Scene,  integra il diorama originale con una decina di specchietti informativi sul colonialismo, sull’identità nativa e sul rapporto tra uomo e donna nelle comunità indigene che invitano gli spettatori a riconsiderare la scena e metterla in prospettiva.
Da oggetto museografico un po’ demodé, il diorama sembra vivere oggi una seconda vita, intercettando le sollecitazioni del dibattito attuale e l’interesse degli artisti.
Nel 2016, Marco Magurno ha pubblicato Diorama con in copertina una fotografia della serie di Richard Barnes. Il rettangolo dello schermo dei nostri cellulari, il black mirror, rappresenta per lo scrittore un’estensione del diorama, in cui natura e artificio si fondono in un iperuranio virtuale.

Julie Pezzali, luglio 2020